Perché la LIDI

Riflessioni sulla funzione culturale dell’Introversione

1.

Nella selva delle sigle che caratterizza il nostro mondo, quella della LIDI, quando viene esplicitata, evoca di solito qualche perplessità.

L'esistenza di una Lega che si prefigge di tutelare i Diritti degli Introversi sembra un'iniziativa a dir poco singolare. Perché “etichettare”- ci viene chiesto - una categoria di soggetti in riferimento ad un orientamento caratteriale ritenuto negativo? Quali sono i diritti violati degli introversi che andrebbero tutelati? L’esigenza di una tutela non conferma paradossalmente la difficoltà di farli valere in prima persona, cioè un disadattamento?

Avanzate nel corso dei tre anni di vita dell’Associazione da varie persone sicuramente in buona fede, queste perplessità attestano un fenomeno ben noto ai sociologi: quello per cui la persistenza di un pregiudizio è in gran parte dovuta alla sua incorporazione nel senso comune, vale a dire in quell’insieme di convinzioni collettive vissute a tal punto come ovvie da non richiedere più riflessione.

Coniati da C. G. Jung nel 1920, i termini estroversione e introversione hanno avuto uno straordinario successo, diventando di uso corrente

Il senso comune, appropriandosene, ha dato ad essi una connotazione cognitivo- emozionale del tutto estranea al pensiero dell’autore, molto attento nel sottolineare i valori e i limiti delle due tipologie caratteriali.

Tale connotazione si ricava anche dai dizionari nei quali l’introverso è definito chiuso, timido, silenzioso, freddo, schivo, distaccato, mentre l’estroverso aperto, comunicativo, sicuro, cordiale, espansivo, esuberante.

Sia pure meramente descrittive, le definizioni lessicali vertono sul comportamento apparente, ma implicano una valutazione rispettivamente negativa e positiva.

Il senso comune, purtroppo, ha contagiato anche la psicologia. Se si va su Internet e si digitano termini come timidezza, insicurezza, vergogna, fobia sociale, ecc. vengono fuori una pletora di centri professionali che offrono i loro servizi per risolvere questi “disturbi”.

Se poi si circola nei forum giovanili dedicati a problemi psicologici, si scopre che la maggioranza degli utenti considerano l’essere introverso una condizione che ostacola l'adattamento sociale: in gergo giovanile, una "sfiga".

All’epoca in cui Jung scrisse il suo capolavoro (Tipi psicologici, Newton Compton, Roma 1973), il pregiudizio non esisteva; oggi esiste ed è tangibile. Per sormontarlo non basta tentare di restaurare il significato originario e scientifico dei termini, approfondendolo alla luce degli sviluppi più recenti delle scienze umane e sociali. Occorre capire come esso si è prodotto e perché si è diffuso.

Che io sappia, non è stata fatta alcuna ricerca sociologica sul pregiudizio in questione. Forse non ce n’è neppure bisogno. Si può fare un test estremamente semplice a riguardo. Basta pronunciare dentro di sé i due termini e valutare la connotazione emozionale che ad essi si associa. Nella stragrande maggioranza delle persone la connotazione coincide con quella del senso comune e dei vocabolari.

C’è, peraltro, una prova ancora meno confutabile. Quasi tutti gli introversi interiorizzano il pregiudizio. In conseguenza di questo, alcuni negano addirittura di essere introversi, altri convivono con la dolorosa consapevolezza di essere inferiori agli altri.

Il malessere degli introversi nel nostro mondo, che va da un senso interiore di disadattamento ad un disagio psichico conclamato, è un dato di fatto poco confutabile. Nell’ottica della LIDI, esso, però, non è costitutivo del modo di essere introverso, non dipende, cioè, dal venire al mondo con determinate caratteristiche psichiche, bensì dal fatto che la nostra cultura, in conseguenza di cambiamenti socio-storici, ha operato una "scelta" che privilegia in assoluto un modello normativo estroverso, e, di conseguenza, squalifica e disconferma il comportamento introverso che non si adegua ad esso.

E' questa scelta che la LIDI intende mettere in discussione perché, anche se essa non è riconducibile ad una volontà deliberata di danneggiare gli introversi, di fatto li danneggia, attivando in essi il vissuto di essere inadeguati, difettosi, "sbagliati" e spingendoli spesso nel vicolo cieco dell'isolamento e del disagio psicologico.

Nell'ottica della LIDI, l'esperienza degli introversi nel nostro mondo, problematica per molti aspetti, è in gran parte la conseguenza del pregiudizio sociale che li investe e che essi, purtroppo, interiorizzano, sviluppando precocemente un vissuto di più o meno grave inadeguatezza.

Che tale pregiudizio sia inconsapevole è provato dal fatto che esso è adottato largamente dagli educatori (familiari, insegnanti) e si traduce, di solito, in una pressione pressoché continua operata sugli introversi a fin di bene perché imparino a stare con gli altri, a comunicare, a fare amicizie, ecc.

Il Forum della LIDI (www.legaintroversi.it) è ricco di testimonianze a riguardo. Ne riporto alcune, esemplari:

"È una verità che ogni bambino introverso impara ben presto: la società non vuole persone introverse, non sa cosa farsene e così le incita a rinnegare il proprio carattere, i propri bisogni per altri che reputa migliori e più desiderabili. E’ questo il messaggio che mi è stato trasmesso sia a scuola che nella vita di tutti i giorni: devi parlare, interagire, essere al centro dell’attenzione anche solo per pochi secondi. Non rimanere in silenzio, non parlare di cose interessanti, non li fare sentire in imbarazzo con la tua incapacità di rincorrere gli argomenti. Il mondo è nelle mani degli estroversi, è palese, sono loro ad avere successo, a far carriera, a cogliere le opportunità migliori… o perlomeno questo è quello che vogliono farci credere.

Il peggior difetto di un introverso? Essere quello che “non è di moda”. Il peggior difetto di un estroverso? Il non riflettere veramente su quello che dice o fa."

"Per i miei genitori la mia timidezza introversione andava bene finché ero bambina, sai com'è ai "miei tempi" (negli anni 90!) c'era il mito del bambino silenzioso, giudizioso, bravo a scuola. Ed io ero proprio così. Quando sono cresciuta e dovevo allora abbracciare lo stereotipo prima dell'adolescente e poi dell'adulta aperta, simpatica, estroversa "sveglia" se vogliamo dire, le cose sono andate sempre più peggiorando. E' una vita che mi dicono che devo cambiare, che se non cerco di cambiare non mi troverò mai bene nella vita, che siamo fatti per essere esseri sociali e non è possibile che io preferisca stare da sola che uscire con gli amici; che la vita è anche doversi confrontare con il giudizio degli altri e anche soffrirci... Mi dicono che alla mia età, 24 anni, bisogna essere pieni di vita e di brio, aver voglia di fare. Invece io sono sempre amante dei passatempi solitari: mi piace guardare film su internet, leggere notizie interessanti, leggere un bel libro da sola e fare escursioni da sola a contatto con la natura. Anche avere un'amica o due con cui confidarmi ma nel gruppo non mi ci trovo.

Mia sorella è molto estroversa, ha avuto tantissimi amici e a me, che ero riservatissima, l'hanno sempre proposta come modello, a volte credendo di spronarmi dicendo che "ero una fallita in confronto a lei" e che "non ce l'avrei mai fatta ad essere come lei" credendo di stimolarmi in quel modo. Ancora oggi non mi lasciano in pace."

“Purtroppo le difficoltà stanno nel liberarsi dall'interiorizzazione di certi modelli e nel trovare interlocutori altrettanto liberi e autentici. La cosa è difficile e molto rara. Tutti noi, consapevoli o meno, usiamo delle maschere nell'affrontare gli altri. Questo è un metodo affinato dall'uomo che vive in società per riuscire a salvaguardare delle parti di sé intime e profonde (non sempre ha senso dire tutto,far sapere tutto di se, mettersi in gioco completamente e incondizionatamente, usare la massima fiducia e spontaneità nell'approcciare l'altro) e allo stesso tempo, però, a entrare in relazione con gli altri. Come tentativo di trovare un compromesso tra le due cose non sarebbe neanche troppo tremenda. Il guaio è che le persone - senza neanche rendersene conto - interpretano solo il ruolo assegnato e sono disturbate ossessivamente dall'avere anche un mondo interiore che vivono come fonte di problemi e di rovinosa compromissione delle prestazioni che devono dare all'esterno. quindi tentano di annullarlo, di non ascoltarlo, di eliminarlo il più possibile. Il fine è quello di aderire perfettamente ad un modello, essere artificiali, inautentici come segno di controllo di sé, di superiorità, efficienza, maturità e di bellezza. Tutti quelli che non riescono a recitare in maniera inappuntabile e che usano segni di genuinità, spontaneità e differenziazione, di scostamento dal "come si deve fare" sono vissuti come persone matte, strane, pericolose o che poverine, non ce la fanno, tradiscono incapacità a controllarsi, a sapersi muovere, parlare relazionarsi, debolezza, pochezza di mezzi, di forze e di risorse. Sono ben poche le persone che non si spaventano e che apprezzano chi si discosta dagli stereotipi, chi li interpreta a maniera sua o se ne inventa di altri.”.

L’amarezza critica esplicita in queste testimonianze non deve indurre a pensare che la LIDI si propone di processare le famiglie, gli insegnanti o la società. Essa intende piuttosto promuovere una riflessione sul modo di produzione antropologico proprio della nostra società. Se si sgombra il campo dall’astrazione psicologista per cui l’allevamento e l’educazione sono processi “naturali”, si capisce immediatamente che essi tendono a modellare una “materia prima” fornita dalla natura, che è il corredo genetico unico e irripetibile con cui ogni soggetto viene al mondo.

Per quanto si possano e si debbano valorizzare i rapporti affettivi tra gli educatori e i bambini ad essi affidati, non c’è dubbio che il processo educativo richiede l’adozione, più o meno consapevole, di “tecniche” finalizzate a realizzare un progetto.

I progetti possono essere vari, a seconda degli ambienti e degli educatori, ma hanno un obiettivo univoco: la produzione di un soggetto capace di inserirsi nel mondo e di integrarsi in esso, assumendo determinati ruoli e adempiendo i doveri che essi comportano; la produzione, dunque, di un soggetto “normale” in rapporto ad un determinato contesto.

Famiglie e Scuola sono, dunque, agenzie sociali cui è affidato, in ultima analisi, il compito di produrre cittadini.

In passato, che i figli fossero destinati a diventare, anzitutto, cittadini, era considerato ovvio. Gli uomini venivano allevati sulla base di principi tradizionali, vissuti come un patrimonio di sapere ereditato dai padri e dagli avi e, da adulti, tendevano ad agire in maniera conforme a quei principi. Il conformismo, in pratica, era un valore primario che non azzerava le differenze individuali, ma le conteneva entro schemi comportamentali ritualizzati, scarsamente flessibili.

Oggi, secondo alcuni, le cose sono radicalmente cambiate. Una nuova sensibilità educativa comporterebbe una particolare attenzione per lo sviluppo dell’individuo come essere unico e irripetibile. Nessun educatore ovviamente prescinde dall’insegnare le buone maniere, ma si dà per scontato che ciò avvenga rispettando la diversità e la particolarità dell’individuo.

Si tratta di un mito piuttosto che di una realtà. Anche se, infatti, in genere gli educatori tendono a riconoscere la diversità che si dà tra i figli e in una certa misura a rispettarla, essi non riescono a prescindere dal dovere che la società assegna loro: quella di costruire cittadini adattati a questa società, vale a dire ad una società dinamica e competitiva, che postula anzitutto di essere efficienti.

Il modello di riferimento al quale, lo voglia o no, ogni educatore si riconduce, è dunque piuttosto univoco. Esso valorizza l’adesione e l’adattamento alla realtà, la capacità di comunicare e di stare con gli altri, un certo grado di competitività, lo spirito pratico necessario per conseguire risultati oggettivi, il non farsi troppi problemi, il prendere la vita come viene, ecc.

Si tratta di un modello manifestamente estroverso, il cui potere di omologazione è enorme perché esso assicura l’inserimento nel gruppo e la conferma di essere normali.

Applicato inconsapevolmente agli introversi, tale modello ha effetti deleteri. Se mi si consente un paragone, direi che oggi gli introversi si trovano a vivere, in termini più drammatici, la stessa situazione sperimentata sino a qualche decennio fa dai mancini, che erano assoggettati ad una rieducazione finalizzata a farli diventare destrimani.

Il pregiudizio nei confronti del mancinismo è stato sormontato in nome della consapevolezza promossa dallo sviluppo scientifico che si tratta di una condizione naturale, di origine genetica, rimasta costante nel corso del tempo (dalla preistoria ad oggi), la cui correzione, portata avanti in buona fede ma con una oggettiva crudeltà, ha prodotto un’inutile sofferenza per i soggetti e, non di rado, danni piuttosto seri a carico della personalità.

La LIDI intende promuovere un processo analogo di consapevolezza in rapporto all'introversione, e quindi un approccio pedagogico e culturale ad essa che, sormontando il pregiudizio, ne riconosca il valore e ne rispetti le modalità e i tempi di sviluppo.

Sarebbe poco onesto, peraltro, omettere che la LIDI ha un obiettivo più ambizioso di quello che si può ricavare dalla sua sigla. I modelli normativi sui quali ogni cultura fonda la propria identità e che presiedono alla riproduzione sociale, nonostante una tendenziale inerzia, sono dinamici, vale a dire cambiano nel corso del tempo in rapporto allo sviluppo della società.

Pochi dubbi si danno riguardo al fatto che, negli ultimi venti anni, il modello estroverso è andato incontro ad una radicalizzazione per cui, oggi, non sembra azzardato definirlo estrovertito nella misura in cui esso promuove una tendenza crescente ad affermare narcisisticamente il proprio valore, esibendo una grande capacità comunicativa, un’estrema sicurezza e la tendenza ad accettare senza paura qualunque confronto competitivo.

Tale modello normativo, se incide in maniera negativa sull'evoluzione della personalità e sull'esperienza di vita degli introversi, in realtà è nocivo per tutti i soggetti, soprattutto per i più giovani.

L'osservatorio delle scuole fornisce una prova clamorosa di quest’assunto. La fascia della popolazione scolastica delle medie inferiori pone sempre più spesso di fronte ad un fenomeno inquietante. I ragazzi che accedono ad esse hanno ancora qualche tratto visibilmente infantile. Nel corso dei tre anni, però, essi vanno incontro, in una percentuale elevatissima, ad una "muta" sorprendente innescata dallo sviluppo puberale: si trasformano quasi repentinamente in ragazzi e ragazze che, sia pure in misura diversa, tendono ad ostentare un atteggiamento adultomorfo, vale a dire a comportarsi come esseri "vissuti", disincantati, disinibiti, cinici e talora aggressivi verbalmente e fisicamente.

Un mio giovanissimo paziente introverso è rimasto sconvolto di recente dal fatto che, nel corso della proiezione a scuola di un filmato su Auschwitz, le cui immagini lo turbavano profondamente, alcuni compagni ridevano sguaiatamente, facendo battute di pessimo gusto. "Ragazzate", indubbiamente, ma terribilmente indiziarie di un crescente processo di anestetizzazione empatica.

Qualche studioso à la page coglie stoltamente in questa "muta" i segni positivi di un progresso culturale, che rende gli adolescenti di oggi più "svegli" rispetto a quelli del passato. In realtà, essa corrisponde all'adozione di una "maschera" che blocca la maturazione della personalità e obbliga gli adolescenti a dare la prova di essere adeguati ad un mondo che penalizza ogni forma di debolezza, e quindi anche l'umana debolezza intrinseca alle vicissitudini dell'adolescenza, programmata dalla natura per realizzare gradualmente un passaggio dall'orizzonte ristretto dell'infanzia ad un'apertura al mondo che postula il dubbio, l'insicurezza, la problematicità.

Altri studiosi hanno identificato in questa muta la "morte dell'adolescenza", riconducendola al fatto che i ragazzi si trovano di fronte ad un aut aut terribile, tale per cui o ci si maschera da soggetti estrovertiti, realizzando una condizione di pseudo-adultità, o ci si arrende ad essere identificati dal gruppo come deboli, inadeguati, "sfigati", con la conseguenza di finire emarginati se non addirittura ridicolizzati e maltrattati.

La LIDI intende porre in discussione, criticamente e operativamente, il modello normativo che sottende questa "muta", sulla base degli effetti alienanti che produce. Essa lo fa identificando negli introversi coloro che ne subiscono i danni maggiori.

Posti di fronte all’aut aut cui si è fatto cenno, alcuni di essi tentano di "mascherarsi", ma raramente ci riescono. I più non ci provano neppure e rimangono confinati, almeno nel rapporto con i coetanei, nel ruolo di esseri inferiori, disadattati, privi di valore. Tale ruolo non è riscattato neppure dal rendimento scolastico talvolta eccellente: nell'ottica del modello normativo dominante, infatti, andare bene a scuola, se gratifica gli adulti è spesso, agli occhi dei coetanei, un ulteriore motivo di discredito.

Occorre, dunque, partire dal significato negativo, pregiudiziale che il modo di essere introverso ha assunto nel nostro mondo e riabilitare la verità su questo orientamento caratteriale. L'impresa non è affatto semplice perché, come vedremo, essa impone di trascendere il piano della psicologia e di affrontare complessi problemi inerenti la condizione umana.

2.

Nell'originaria definizione di Jung, l'introversione comporta la tendenza a interpretare la realtà in modo soggettivo; l'estroversione, viceversa, quella ad assumere la realtà esteriore come data e precostituita rispetto al soggetto e ad aderire ad essa.

Possiamo mettere tra parentesi il fatto che la disinvoltura con cui Jung ha affrontato il problema del rapporto tra soggetto e oggetto, già lungamente dibattuto a livello filosofico.

Ciò che premeva a Jung era di costruire una tipologia della personalità sulla base di due componenti di fondo universali: l'introversione e l'estroversione. Gli va riconosciuto il merito di avere avuto un'intuizione a tal punto geniale che essa rapidamente è venuta a far parte del senso comune. Il senso comune, però, ha posto tra parentesi un aspetto fondamentale del pensiero di Jung: quello per cui una componente introversa e una estroversa sono presenti in ogni personalità, secondo combinazioni varie che comportano la prevalenza caratteriale e comportamentale dell'una o dell'altra.

Non esiste, insomma, un'estroversione assoluta né un'introversione pura, perché ogni soggetto vive nell’interfaccia tra il mondo esterno, sul quale è affacciato in virtù dei sensi, e il mondo interno, che egli esperisce e a cui riconduce la consapevolezza di essere un Io. Esistono indefinite combinazioni genetiche che comportano l’associazione di una componente estroversa e di una introversa in misura variabile, il cui sviluppo è legato all’interazione con l’ambiente.

Laddove una componente prevale il suo sviluppo è facilitato. Per raggiungere un equilibrio autentico, però, l’individuo deve sforzarsi di sviluppare anche la componente complementare.

Se questo è vero, riesce immediatamente evidente che il modello normativo attualmente dominante - non solo estroverso, ma estrovertito - comporta la repressione della componente introversa presente in ogni personalità: ed è superfluo aggiungere che essa è direttamente proporzionale all’entità di tale componente. Tale repressione non giunge ad azzerare la consapevolezza di avere un’esperienza soggettiva, vale a dire un mondo interiore privato: essa, però, inibisce l'introspezione, che pone a contatto con gli aspetti esistenziali dell'essere umano - la vulnerabilità, la precarietà, la finitezza, il destino mortale - e induce una vera e propria fobia del mondo interiore, che si traduce nel rifuggire in ogni modo la solitudine, condizione sine qua non del contatto con sé e dello sviluppo dell’essere.

Questa fobia è la matrice del pregiudizio nei confronti dell'introversione, che si realizza, dunque, sulla base di un meccanismo proiettivo. E' superfluo aggiungere che tale meccanismo, identificando all'esterno aspetti di sé che danno fastidio, produce quasi inesorabilmente un’avversione quando non addirittura una "persecuzione". I cosiddetti “bulli”, rappresentanti estremi dell’estrovertimento alienato, sono gli esecutori di questa persecuzione. Basta però conoscerli da vicino, o vedere qualcuno di essi crollare sotto il peso delle sue malefatte per capire in quale misura essi odiano, di fatto, una “debolezza” che fa parte del loro essere.

Essi, peraltro, sono gli esecutori oggettivamente responsabili della persecuzione, non i mandanti. I mandanti, peraltro non esistono. E’ il modello normativo estroverso o estrovertito la matrice del pregiudizio contro l’introversione.

Non affronterò qui l'analisi dei processi storico-sociali che lo hanno prodotto, se non per rilevare che essi hanno riabilitato una sorta di darwinismo sociale, incentrato sulla legge del più forte, che sembrava superato da tempo.

Per avviare la lotta contro quel modello e il pregiudizio sociale che ne rappresenta una conseguenza, occorre arricchire le intuizioni di Jung con i dati acquisiti successivamente dalle scienze umane e sociali (genetica, evoluzionismo, neurobiologia, psicologia, psicoanalisi, sociologia, ecc.).

Tra questi dati il più significativo in assoluto è di ordine storico.

Per quanto una componente introversa e una estroversa facciano parte della personalità di ogni soggetto, la loro distribuzione nei corredi genetici non sembra corrisponde ad una curva normale, a campana (come accade per alcuni tratti tipologici fisici, per esempio l'altezza). Una prevalente componente introversa si manifesta in una quota minoritaria della popolazione, valutabile come oscillante tra il 5 e il 7%: in media, insomma, un soggetto su venti è introverso.

Pongo, per ora, tra parentesi, ripromettendomi di tornare sull'argomento, il complesso problema del significato di questa "scelta" operata dalla Natura, se non per rilevare che per gli stessi genetisti essa rappresenta un problema. Perché l'introversione – si chiedono -, se, come a noi appare, è un orientamento disfunzionale ai fini dell'adattamento sociale non è incorsa nella selezione naturale?

E' evidente che questo quesito non riguarda la componente introversa in sé e per sé, in difetto della quale non esisterebbero la percezione di un mondo interiore e l'autoconsapevolezza, ma la sua prevalenza in alcuni, peraltro rari, corredi genetici.

Una risposta suggestiva si ricava dalla storia della cultura. Pur essendo una minoranza, infatti, gli introversi hanno fornito ad essa un contributo assolutamente straordinario.

L'intuizione che la "genialità" si associa spesso a qualche "stranezza", che oggi è agevole ricondurre all'introversione, è di antica data. Essa si può ormai ritenere scientificamente comprovata. La genetica attesta, infatti, che una quota percentualmente elevata (dal 30 al 70% a seconda delle statistiche) di scienziati, musicisti, filosofi, pittori, romanzieri e poeti hanno manifestato tratti di introversione. Per non dare un significato astratto alle percentuali basterà fare a caso i nomi di Newton, Darwin, Einstein, Beethoven, Schumann, Brahms, Debussy, Rousseau, Kant, Kierkegaard, Schopenauer, Nietzsche, Michelangelo, Van Gogh, Cezanne, Morandi, Dostoevsky, Kafka, Holderlin, Leopardi, Baudelaire, Pirandello, ecc.

L'elenco, che per essere completato richiederebbe molte pagine, e l’aggiunta di molti altri ambiti di attività intellettuale (il cinema, il teatro, la fotografia, la musica jazz, quella popolare, ecc.) pone di fronte ad un dato sconcertante: parecchi degli autori elencati hanno sperimentato un disagio psichico più o meno grave. Ancora più sconcertante è il fatto (riportato in Matt Ridley, Il gene agile, Adelphi, Milano 2005) che fra i parenti stretti dei geni immuni da un disagio psichico risultino soggetti affetti da disturbi in una percentuale superiore alla media.

Non è qui il caso di affrontare il rapporto tra genialità e malattia mentale. Alla luce dei dati di cui disponiamo, si è indotti a pensare che quando la mente raggiunge un livello di funzionamento tale per cui si inoltra su terreni simbolici di ricerca poco o punto esplorati, essa raggiunge una sorta di equilibrio esaltante e nel contempo critico e precario: procede, insomma, lungo il bordo di un cratere.

Ciò che qui interessa è che una componente minoritaria dell'umanità ha dato un tale contributo alla crescita del patrimonio culturale della specie umana che, se esso fosse cancellato, tale patrimonio si impoverirebbe criticamente.

Il rapporto percentuale tra introversione e genialità è dunque nettamente più elevato del rapporto tra estroversione e genialità. Ciò significa che, anche se sono rarissimamente geni, gli introversi nel loro complesso sono depositari di potenzialità creative in misura superiore alla media della popolazione.

Questa attribuzione ha scarso significato, o può apparire al limite come gratuita, se non si specifica cosa si intende per creatività.

Per quanto riguarda i geni la risposta è semplice, in quanto essi oggettivano attraverso le opere un’attività mentale che esplora in maniera incessante l’universo dei simboli e li manipola fino a dare ad essi una configurazione originale, vale a dire al di là del senso comune.

Se anche fosse vero, dunque, come alcuni sostengono, che l'introversione rappresenta una condizione di vulnerabilità psicologica, per cui essa comporta una difficoltà a rispondere adattivamente alle normali richieste della vita che rientrano nell'ambito dello stress (in pratica gli eventi negativi), a maggior ragione un patrimonio così prezioso e utile per l'umanità andrebbe tutelato.

Negli introversi che non sono geni, dunque nella stragrande maggioranza degli introversi, l’attività della mente è ugualmente rivolta ad esplorare la realtà cercando ciò che si dà al di là delle apparenze e del senso comune. Tale attività li rende fruitori elettivi delle opere dei geni. Nelle testimonianze citate questo aspetto è evidente. L’attitudine esplorativa degli introversi, però, svolge anche una funzione importante ai fini dell’evoluzione culturale. Di cosa si tratta?

3.

La risposta a questa domanda è molto impegnativa e richiederebbe un’articolata illustrazione di ciò che oggi conosciamo del cervello e del funzionamento della mente grazie alla genetica, alla neurobiologia, alla psicologia, alla psicoanalisi, alla sociologia, ecc.

Mi limiterò a pochissime nozioni, essenziali al fine di portare avanti il discorso.

La genetica ha accertato definitivamente che i corredi genetici individuali (eccezion fatta per i gemelli identici) sono unici e irripetibili. La Natura ama, dunque, la varietà.

Ogni corredo genetico comporta una norma di reazione, vale a dire un insieme di possibili sviluppi che dipendono dall’ambiente con cui esso interagisce. Il concetto di norma di reazione significa che non si dà un destino genetico, ma si danno sicuramente dei vincoli genetici che rappresentano i limiti entro i quali lo sviluppo della personalità può realizzarsi.

Per quanto riguarda gli introversi tali vincoli possono essere ricondotti ad un corredo emozionale di intensità superiore alla media, vale a dire ad un sentire intuitivo che è naturalmente molto attivo sin dall’infanzia. Paradossalmente, questo aspetto fa parte del pregiudizio inerente l’introversione, che associa alla chiusura comunicativa l’iperemotività.

Non si stenta a capire che una delle matrici del pregiudizio è da ricondurre al primato assegnato dalla nostra cultura alla razionalità. Questo primato è stato posto radicalmente in gioco negli ultimi anni dallo sviluppo delle neuroscienze, che hanno confermato alcune intuizioni della psicoanalisi sul significato delle emozioni.

La neurobiologia ha scoperto che il cervello umano, nonostante sia letteralmente affacciato sul mondo esterno attraverso i sensi, ha un orientamento naturalmente introverso. Questo è attestato da due dati ormai acquisiti.

Il primo è che esso manifesta precocemente (a partire dal quarto mese di vita fetale) un'attività intrinseca. Ciò significa che comincia a funzionare per conto proprio, sulla base di una programmazione evidentemente genetica, anche indipendentemente dagli stimoli esterni. L'attività intrinseca, peraltro, persiste anche quando si realizza l'interazione con il mondo esterno. Ne abbiamo la prova ogni notte, quando sogniamo, vale a dire abbiamo un'esperienza allucinatoria che scambiamo come reale. L’attività intrinseca significa che il cervello modella e interpreta la realtà esterna, ma la modella sulla base di memorie emozionali.

Le informazioni che muovono dai sensi, e danno a ciascuno l'impressione di vivere in presa diretta con la realtà esterna, passano tutte indistintamente attraverso un filtro emozionale che funziona del tutto al di fuori della sfera cosciente. Esse sono dunque valutate e qualificate emotivamente e soggettivamente. Ogni individuo, in breve, sperimenta il mondo in maniera introversa: lo “soggettivizza”.

Questo aspetto riguarda tutti i rapporti che il soggetto intrattiene con il mondo. E’ fuor di dubbio, però, che, nell’esperienza di ogni individuo, il mondo esterno è rappresentato soprattutto da altri soggetti.

L’uomo è un animale radicalmente sociale. Non è ovviamente l’unico animale sociale, ma lo è in maniera del tutto particolare.

Intanto è un essere che viene al mondo in una condizione di totale dipendenza e immaturità e ha un periodo evolutivo di smisurata lunghezza (il cervello termina il suo sviluppo a 23 anni).

In secondo luogo, egli raggiunge la consapevolezza di sé solo in virtù di una scambio emotivo e culturale prolungato con altri esseri umani. L’intersoggettività, insomma, è il fondamento dell’autoconsapevolezza.

In terzo luogo, il cervello umano è dotato di due particolari caratteristiche il cui significato non può essere minimizzato.

La prima caratteristica è riconducibile ai neuroni specchio, che rappresentano una delle scoperte più formidabili della neurobiologia. I neuroni specchio consentono di rispecchiare dentro di sé i comportamenti e le intenzioni degli altri. Essi sono la matrice dell’empatia, della capacità di interpretare gli stati d’animo altrui, e dell’imitazione, che è fondamentale a livello di sviluppo evolutivo.

Nella misura in cui, però, la tendenza all’imitazione rimane attiva anche negli adulti, è agevole identificare in essa la matrice del senso comune e del conformismo.

La seconda caratteristica, che fa da contrappeso alla pressione che i neuroni specchio esercitano nella direzione dell’omologazione culturale, è un sistema emozionale che i neurobiologi definiscono sistema della ricerca. A livello elementare esso promuove semplicemente la tensione appetitiva verso oggetti atti a soddisfare i bisogni (per esempio il cibo o un partner sessuale). Il sistema della ricerca, però, è sotteso nell’uomo da una tensione verso il piacere o l’appagamento che trascende i bisogni elementari. Al limite esso può comportare l’esplorazione appassionata del mondo al fine di trovare risposte ai più vari perché l’uomo è in grado di porsi.

Il sistema della ricerca, nella sua apertura alla complessità infinita del mondo e dell’universo dei simboli, è particolarmente attivo nei geni, ma lo è, in misura minore, anche negli introversi.

Tutti questi dati portano a capire un po’ meglio la condizione degli esseri umani.

L’estroversione è caratterizzata da una tendenza all’imitazione estremamente spiccata che comporta l’adesione spontanea al mondo così com’è e ai modi di pensare, di sentire e di agire che esso privilegia o prescrive.

Purtroppo, nel nostro mondo, in conseguenza della pressione operata dal modello normativo estrovertito l’inserimento e l’adattamento sociale postulano un sacrificio più o meno rilevante dell’empatia, una sorta di anestetizzazione che non azzera la socialità, anzi la esalta ma a partire dal presupposto per cui la relazione con gli altri deve risultare soprattutto utile ai bisogni egoistici e narcisistici dei soggetti.

Gli introversi, per quanto risultino in genere estremamente influenzabili a livello educativo in nome di una tendenza all’imitazione che comporta talora un’identificazione cieca con gli adulti e con le loro aspettative, esplicite ed implicite, sono dotati di un’empatia che rimane intensa anche in età adulta e appare resistente ad ogni genere di anestetizzazione.

Tale grado di empatia, che già di per sé implica una sorta di sensibilità estrema nei confronti di tutte le condizioni di sofferenza umana, si associa ad un senso di dignità e di giustizia estremo.

E’ questa particolare emozionalità che, intrecciandosi con un sistema di ricerca sempre molto attivo, pone gli introversi in un rapporto spesso inconsciamente critico con il mondo esistente. Essa infatti li costringe ad interrogarsi sulla condizione umana e sul suo significato, a riflettere, a chiedersi che cos’è il bene, il male, il giusto, l’ingiusto, perché esiste il dolore, la malattia, la morte, perché gli uomini aggiungono ai mali naturali della condizione esistenziale altri mali, altri dolori, ecc.

La riflessione fa capo ad un “sogno” presente in tutti gli introversi: il sogno di un mondo nel quale l’uomo sia un fine e non un mezzo, un mondo caratterizzato dalla solidarietà, dall’esigenza suprema di non farsi del male, dalla delicatezza nei rapporti interpersonali, ecc.

I vincoli genetici presenti nell’emozionalità degli introversi inibiscono la possibilità di aderire al modello dominante estrovertito. Essi implicano la valutazione del mondo reale alla luce di altri mondi e modi di essere possibili.

Al realismo adattivo degli estroversi corrisponde dunque, negli introversi, una tendenza spontanea al disadattamento che, quando non imbocca la via dell’oggettivazione letteraria, artistica, filosofica, scientifica, che realizza almeno in parte i mondi possibili, si traduce quasi inevitabilmente in uno stato di malessere o di disadattamento.

Gli introversi si chiedono spesso come facciamo gli estroversi ad adattarsi con una serenità apparente al mondo così com’è.

La risposta è che la cultura fornisce ad essi un aiuto potente canalizzando le loro esperienze entro l'alveo del senso comune. Essa prescrive letteralmente, prescindendo da qualunque manipolazione, ciò che si “deve” vedere e sentire per essere normali all'interno di un determinato contesto socio-storico.

Il senso comune è un potente strumento di normalizzazione. Se un soggetto sente, pensa e si comporta come tanti altri, può facilmente arrivare alla conclusione di essere normale e di aderire alla realtà.

Il problema è che la realtà che la maggioranza delle persone vivono non è necessariamente quella oggettiva, bensì quella codificata culturalmente, che si riconduce cioè all'interpretazione prevalente che se ne dà all'interno di un determinato contesto storico.

Il discorso può apparire astratto. Cercherò di dare ad esso concretezza adducendo alcuni esempi significativi.

4.

Un mio paziente, altamente introverso, rievocava con terrore la prima crisi di panico della sua vita intervenuta a tre anni, in occasione dell'essere entrato, forse per la prima volta o comunque per la prima volta "consapevolmente", in una macelleria. Il panico era dovuto al fatto che i suoi occhi gli avevano restituito la percezione orribile di animali crudelmente squartati.

Gli occhi di un bambino sicuramente estremamente sensibile hanno dunque visto ciò che è sotto gli occhi di tutti, ma che noi, entrando in una macelleria, non vediamo (tranne che non ci capiti sotto gli occhi un inquietante coniglio o un agnellino con la testa ancora al suo posto e gli occhi sbarrati) perché la cultura ci ha resi assuefatti all'inquietante spettacolo (dietro il quale peraltro si danno crudeltà legate all'allevamento ancora maggiori).

Rimaniamo in tema.

Un'altra mia paziente, anch'essa introversa, ha avuto un attacco di panico da grande, mentre veniva nel mio studio, passando davanti alla vetrina di una norcineria sulla quale, a scopo pubblicitario, erano (e sono) rappresentati tre maialini alla Walt Diney dalle cui bocche pendono file di salsicce. Devo confessare che davanti a quella vetrina ero passato indefinite volte senza vedere quell'orribile rappresentazione e penso che tra gli avventori nessuno mai l'abbia vista o la veda.

E' evidente che entrambi i soggetti sono dotati di una particolare capacità intuitiva che ha consentito loro di "vedere" aspetti della realtà che sono sotto gli occhi di tutti, ma evidentemente sfuggono al senso comune, e di dare ad essi un significato inconsueto, profondo e emotivamente coinvolgente.

Da questi esempi si può ricavare una considerazione di un certo interesse.

La realtà, che i più vivono in superficie, nell'oggettività con cui appare, è per molti aspetti il prodotto del senso comune e dell'assuefazione culturale: al di là della superficie, essa è complessa e stratificata, ha uno spessore significativo, che può essere percepito a vari livelli di profondità. E' insomma, come diceva Baudelaire, una “foresta di simboli” che ciascuno di noi decifra in rapporto alle sue capacità intuitive, emozionali e cognitive. Guardare da fuori o penetrare in questa foresta dà luogo ad esperienze che è ingenuo valutare in termini di oggettività/soggettività. Si può dare un’esperienza realistica insignificante e un’esperienza soggettiva altamente significativa.

Agli occhi dei più una siepe che impedisce di vedere al di là è semplicemente una siepe. Solo un soggetto marcatamente introverso ha visto in essa il simbolo della limitatezza percettiva umana che l'immaginazione permette di trascendere al punto che essa è divenuta il confine simbolico al di là del quale si dà la vertigine dell'infinito nello spazio e nel tempo.

Gli introversi sono tutti dotati, sia pure in misura diversa, di una particolare capacità intuitiva rispetto alla media delle persone.

Il problema di una definizione più precisa del modo di essere introverso discende dal fatto che, nell'ambito della psicologia, non esiste alcuna funzione psichica più misteriosa ed oscura dell'intuizione.

Lungamente dibattuta dai filosofi, l’intuizione è stata inserita da Jung tra le quattro funzioni fondamentali della mente (con la sensazione, il sentimento e il pensiero). La difficoltà di sottoporla a ricerche sperimentali ha fatto sì che, ancora oggi, non se ne trova quasi traccia nei Trattati di psicologia.

Alcuni anni fa, uno psicologo statunitense, Daniel Goleman, ha pubblicato un libro divenuto rapidamente famoso – L’intelligenza emotiva (Rizzoli, Milano 1997) – nel quale ha tentato di dimostrare l’importanza dell’intuizione inter- e intrapersonale ai fini nell’esperienza umana. Nonostante il successo, le ipotesi di Goleman hanno ricevuto ben poche conferme scientifiche.

Decisiva, invece, ai fini di una rivalutazione dell’intuizione, come accennato, è stata la scoperta dei neuroni specchio, che sembrano rappresentare il fondamento della capacità di decifrare, senza la mediazione della ragione, gli stati d’animo altrui e di immedesimarci con essi.

Sembra ancora prematuro formulare delle ipotesi precise sulla capacità intuitiva. A riguardo, però, si può dire qualcosa.

L'etimologia del termine intuizione implica la capacità di "vedere" dentro le cose, vale a dire di comprendere qualcosa al di là delle apparenze, senza la mediazione della ragione. Si tratta dunque di una modalità di conoscenza pre-cognitiva e pre-riflessiva, sostanzialmente irrazionale, cioè inconscia, che può riguardare qualunque oggetto (la natura, le cose, le persone), e produce dati immediati che possono poi essere elaborati dalla ragione in maniera più o meno complessa e articolata.

Sulla base di questa definizione, non è sorprendente che si possa parlare di intuizione filosofica, scientifica, matematica, poetica, ecc.

Negli introversi la forma di intuizione più comune e spiccata è l'empatia, vale a dire la capacità di leggere dentro le persone e di decifrare i moti dell'anima altrui, anche inconsci, che risulta spesso associata ad un'altra capacità ad essa affine: l'insight, la capacità di leggere intuitivamente nel proprio mondo interiore.

Perché questa dote fuori del comune produce, nel nostro mondo, più problemi che vantaggi a chi la possiede? Perché essa, che implica un'intensa e sottile attenzione nei confronti dell'umano, dentro e fuori di sé, determina più spesso una tendenza al distacco e all'isolamento sociale che non la partecipazione e la condivisione?

La risposta sta nello scarto tra il “sogno” cui s’è fatto cenno e la realtà del mondo con cui l’introverso interagisce. Il malessere diffuso tra gli introversi attesta che tale scarto è maggiore di quanto si pensa.

5.

Torno per un attimo alle esperienze citate.

La nostra cultura ci ha assuefatti a non "vedere" nelle macellerie gli animali squartati. Solo se un macellaio perdesse la ragione e esponesse cadaveri di cani, topi, pipistrelli, avremmo le stesse reazioni del bambino di tre anni.

La funzione dell'assuefazione, in questo caso, consiste sostanzialmente nel promuovere un adattamento che non potrebbe sopravvenire se l'emozionalità che dobbiamo presumere associata alla percezione cognitiva non fosse in qualche misura rimossa o repressa.

Alla luce di quanto detto, possiamo definire l'assuefazione come una percezione dissociata dall'empatia e dall'insight.

Se ci chiediamo, però, qual è l'estensione dei fenomeni di assuefazione prodotti dalla nostra cultura, non è facile rispondere perché essi, in conseguenza di quella dissociazione, sono vissuti con estrema naturalezza.

La difficoltà intrinseca ad ogni cultura consiste nel fatto che essa coglie i fenomeni di assuefazione attivi nelle altre, ma ha difficoltà a cogliere quelli attivi al suo interno. Noi ci meravigliamo che l’umanità sia convissuta per quattromila anni con la schiavitù, che implicava la riduzione a cosa di un essere umano. Ci scandalizziamo per il burka, per l’infibulazione, per lo sfruttamento del lavoro minorile, per la pena di morte inflitta ai dissidenti, ecc.

La meraviglia e lo scandalo per l’“arretratezza” di altre culture ci porta a pensare che la nostra sia, per molti aspetti, illuminata. Di fatto, tendiamo a rimuovere le assuefazioni e le cecità che l’affliggono.

L'8 settembre, su Repubblica, un articolo del sociologo Ulrich Beck, intitolato significativamente Quelle vite devastate che i ricchi non vedono, si avviava con queste parole: "San Francisco, primi di agosto 2009; bighellono nei dintorni dell´hotel Hilton, sede del congresso americano di sociologia di quest’anno, dove devo tenere una relazione. I sociologi, simili in questo ai chirurghi che operano d'urgenza, sono gente alquanto insensibile; i tempi di crisi sono per loro alta stagione. Non è così per i senzatetto e i mendicanti che mettono in mostra la loro povertà o per la gente di colore che difende il suo territorio nei ghetti e nelle favelas. C´è un fagotto d'uomo sul margine della strada. Un poliziotto controlla rapidamente che dia segni di vita e se ne va. Sono proprio tanti quelli che si trascinano a fatica, cercando di evitare al loro corpo le lussazioni sempre in agguato...

Là uno barcolla attraverso la strada trafficata, in mezzo ai clacson e allo stridio di freni del fiume di macchine. Non riesco a togliermi di mente gli occhi spenti dei corpi in parte gonfi come palloni, in parte magri come un chiodo che mi si fanno incontro (uno su dieci passanti, grosso modo). Qui l'inumanità della società spietatamente capitalistica che si richiama all'umanità della libertà e della democrazia ha i suoi volti."

Beck non specifica se, con quel campionario umano intorno, gli sia riuscito di mangiare nel lussuoso ristorante vietnamita dalla cui finestra ha avuto modo di osservarlo a lungo. Ma quanti, in quello stesso locale - suggerisce il titolo - non lo hanno visto?

Molti anni fa, ho conosciuto uno studente di medicina, figlio di una ricca famiglia, che sembrava avere imboccato la via dell'anoressia, essendo dimagrito di quindici chilogrammi in tre mesi. In realtà, non era affatto anoressico. Aveva semplicemente avviato un'esperienza di volontariato in un quartiere desolato di Roma e, venuto a contatto con la miseria, la fame e la muta disperazione dei bambini, i cui occhi gli sembravano infinitamente tristi, ne era rimasto ossessionato al punto che ogniqualvolta tentava di mangiare si sentiva in colpa.

Una sensibilità eccessiva e morbosa? Può darsi. Ma perché allora non considerare difettosa e ugualmente patologica quella dei ricchi di cui parla Beck, che letteralmente non vedono ciò che hanno sotto gli occhi?

L'articolo di Beck ha rievocato in me un ricordo complementare. Un mio collega di laurea, che aveva deciso di abbandonare la pratica della professione in quanto non sopportava il contatto quotidiano con il dolore, divenendo il coordinatore scientifico-commerciale di un'industria farmacologica statunitense per l'area latino-americana, mi riferì che, in occasione della sua prima missione in Brasile, fu aspramente criticato dal collega che gli passava le consegne perché aveva elargito l'elemosina a una banda di piccoli straccioni. Il rimprovero discendeva da una visione del mondo esplicitata in questi termini: "Qui i poveri pensano ancora che la loro condizione corrisponda al volere divino. Dobbiamo continuare a farglielo credere, perché, se aprono gli occhi, per noi è finita, ci divorano."

Chiudere gli occhi senza rendersene conto o impedire a qualcuno di aprirli laddove “vedere” comporta qualche pericolo: sembrano questi due obiettivi costitutivi di ogni cultura, la cui funzione è di “naturalizzare” l’esistente e di permettere alle persone di adattarsi ad esso senza porsi troppi problemi. Ovunque, insomma, le culture funzionano come dispositivi di normalizzazione. A noi, interessa la nostra perché viviamo in essa.

Il problema di ordine generale legato all'introversione è che l'empatia, per un verso, e le capacità intuitive di cui abbiamo parlato, per un altro, impediscono ai soggetti che le hanno ricevuto in dono dalla natura di prendere la realtà per quella che è, cioè rendono altamente problematico quando non addirittura impossibile l'adattamento sulla base dell'assuefazione. Esse "costringono", talvolta coscientemente, più spesso inconsapevolmente, a vedere e a sentire ciò che sarebbe "meglio" non vedere e non sentire. La miseria, le ingiustizie, la prepotenza, la violenza, la persistente oppressione dell'uomo sull'uomo, certo. Gli introversi, come accennato, sono naturalmente utopisti, valutano il mondo alla luce di un sogno, di come il mondo dovrebbe. Ma c'è di più, di peggio e anche di difficile da illustrare.

Di cosa si tratta?

6.

Ho accennato al fatto che il modello normativo dominante nel nostro mondo promuove l’acquisizione di competenze sociali che facilitano l’inserimento nel gruppo e il riconoscimento da parte degli altri. Questo obiettivo dell’integrazione sociale è però privilegiato al punto che in nome di esso viene sacrificato lo sviluppo integrale della personalità, che non può prescindere dalla coltivazione del mondo interiore, vale a dire dalla coltivazione della componente introversa che fa parte di ogni personalità.

Nella misura in cui l’inserimento sociale si realizza sulla base delle conferme sociali che il soggetto riceve dagli altri, lo sviluppo della personalità tende ad arrestarsi, dando luogo ad un adattamento quasi passivo alla realtà.

Questo problema era già stato rilevato da Jung, che scrive:

“L'inserimento puro e semplice segna il limite del tipo estroverso normale: egli deve la sua normalità al fatto che si inserisce senza gravi attriti nelle circostanze che gli si presentano e che non ha altra pretesa che di adeguarsi alle condizioni oggettivamente fissate;.. farà o eseguirà quello di cui il suo ambiente avrà bisogno in quel momento, quello che ci si aspetterà da lui; si asterrà da ogni innovazione che non sia assolutamente e evidentemente necessaria, e da tutto ciò che possa in qualche modo andare al di là delle aspettative dell'ambiente…” (p. 313)

A questo stesso problema, E. Fromm ha dedicato una serie di riflessioni profonde, che sarebbe arduo tentare di sintetizzare, ma che lo hanno indotto a mettere radicalmente in discussione il mito dela normalità:

In Psicoanalisi della società contemporanea (Mondadori, Milano 1987), egli scrive:

“Se una persona non riesce a raggiungere libertà, spontaneità e genuina espressione di sé, si può ritenere che essa abbia delle gravi forme di deficienza, sempre che si creda che libertà e spontaneità siano delle mete obiettive raggiungibili da ogni creatura umana. Se poi questa meta non è raggiungibile dalla maggioranza dei membri di una data società, allora abbiamo a che fare con il fenomeno di una deficienza socialmente strutturata. L'individuo la condivide con molti altri, ma non crede si tratti di una deficienza e la sua sicurezza non è minacciata dalla consapevolezza di essere diverso, di essere, per così dire, un proscritto. Ciò che può aver perso in ricchezza, in sentimento genuino di felicità, è compensato dal senso di sicurezza datogli dall'adattamento al resto dell'umanità, sempre però com'egli la vede. In effetti può avvenire che proprio questa deficienza sia stata elevata a virtù dalla sua cultura, e che pertanto gliene derivi un accresciuto sentimento di successo.” (pp. 22-24)

La deficienza socialmente strutturata è una condizione di pseudonormalità, vale a dire di iposviluppo convalidata socialmente come “normale” che Fromm vede fortemente rappresentata nella società:

“Oggi ci incontriamo con persone che agiscono e sentono come automi: che non hanno mai avuto un'esperienza veramente propria, che conoscono se stessi non come sono nella realtà, ma come gli altri si attendono che siano, il cui sorriso convenzionale ha sostituito la risata genuina, le cui chiacchiere insignificanti hanno sostituito il colloquio comunicativo, la cui opaca disperazione ha preso il posto di un'autentica sofferenza. Due cose si possono dire per costoro: una è che soffrono di una mancanza di spontaneità e di individualità che può sembrare incurabile; nello stesso tempo si può anche rilevare come essi non sono essenzialmente diversi da milioni di altri che si trovano in eguali condizioni. Alla maggior parte di loro la cultura fornisce strutture che li mettono in grado di vivere con una deficienza senza ammalarsi. È come se ogni cultura fornisse il rimedio contro le esplosioni di evidenti sintomi nevrotici, conseguenza della deficienza che questa stessa cultura ha provocato.” (p. 25)

L’analisi di Fromm risale a oltre cinquanta anni fa. Oggi le cose sono peggiorate. Per convincersene basta pensare alla “muta” degli adolescenti cui ho fatto cenno, che dipende dall’adozione acritica di un modello normativo che scongiura la possibilità di essere emarginati dal gruppo. Il modello normativo in questione non è certo prodotto dagli adolescenti: esso esprime e radicalizza ciò che è nell’aria nel contesto della nostra società, e incide, prima che sulla loro, sulla personalità degli adulti.

Scrive ancora Fromm:

“È proprio di ogni cultura che essa costruisca un mondo artefatto, fabbricato dall'uomo, sovrimposto al mondo naturale in cui l'uomo vive. Ma l'uomo può realizzare se stesso soltanto se resta in contatto con i fatti fondamentali della sua esistenza, se può provare l'esaltazione dell'amore e della solidarietà, come anche il tragico fatto della sua solitudine e del carattere frammentario della sua esistenza. Se egli è totalmente irretito nella routine e nell'artificiosità della vita, e se del mondo può vedere soltanto la banale apparenza che egli stesso se ne costruisce, perde il contatto con sé e con il mondo e la possibilità di comprenderli entrambi. In ogni cultura noi troviamo il conflitto tra la routine e il tentativo di ritornare alle realtà fondamentali dell'esistenza.” (p. 143-144)

Com’è possibile che di questa condizione di pseudo-normalità non ci si renda conto?

Ho già accennato al fatto che la visione media che gli esseri umani hanno del mondo è semplificata, tendenzialmente assuefatta e, dunque, superficiale. Questo concetto vale però anche per il modo in cui essi vedono se stessi, si giudicano e interpretano i propri comportamenti.

E' merito di Freud avere scoperto che la coscienza umana tende spontaneamente alla mistificazione, vale a dire a realizzare un inganno inconsapevole tale per cui l'immagine che le persone hanno di se stesse è più o meno "ritoccata" in rapporto al loro essere, oggettivato dai comportamenti; non coincide, insomma, in misura più o meno rilevante, con ciò che essi di fatto sono. E' anche un suo merito avere identificato i meccanismi difensivi (rimozione, proiezione, razionalizzazione, scissione, ecc.) la cui attività produce la mistificazione, la cui funzione è di mantenere la immagine di sé sul registro della massima conformità possibile al modello di normalità dominante.

I meccanismi difensivi in questione, che ci impediscono di prendere atto realmente di come siamo, sono ego-sintonici. Essi servono a tenere gli esseri umani al riparo dalla complessità e dalle contraddizioni del loro essere, e ad impedire il confronti con i problemi esistenziali che si muovono nel profondo dell’inconscio umano

Più di tutte le altre, questa scoperta freudiana è stata rigettata dalla cultura e dal senso comune, e, finora, non ha inciso che minimamente sulla consapevolezza che gli esseri umani hanno di se stessi. Essa è stata ripresa vigorosamente, con un'articolazione psicosociologica complessa, dalla cultura critica degli anni '70, nella cui cornice il tema della falsa coscienza era centrale. Quella cultura, però, è andata incontro ad un processo di rimozione.

E' probabile che questa rimozione sia destinata a saltare, perché la scoperta per cui lo statuto della coscienza è normalmente mistificato comincia ad essere riproposta nuovamente da una vasta schiera di studiosi nell'ambito delle scienze umane e sociali.

Uno tra i più famosi neurobiologici contemporanei, J. Le Doux, scrive:

"Quello che una persona è, ciò che pensa, sente e fa non è per nulla influenzato dalla sola coscienza. Molti dei nostri pensieri, sentimenti e azioni hanno luogo in maniera automatica, e solamente dopo che sono accaduti, forse, diventano accessibili alla coscienza…

"Molto di ciò che noi umani facciamo è influenzato da processi che esulano dalla consapevolezza. La coscienza è importante, ma lo sono altrettanto i processi sottostanti di tipo cognitivo, emozionale e motivazionale che sono all'opera inconsciamente." (Il Sé sinaptico, Raffaello Cortina, Milano 2002, p. 360).

Ian Tattersal, il maggiore paleoantropologo vivente, scrive:

"Homo sapiens è un intrico di paradossi, sia individualmente sia collettivamente. Lasciamo per il momento da parte le società, poiché ciascuna cultura ha semplicemente operato la sua selezione all'interno della vasta gamma di valori e comportamenti di cui Homo sapiens nel suo insieme dispone. Cosa possiamo dire sui comportamenti umani individuali? Essi possono essere descritti per mezzo di qualunque coppia di opposti: generoso/egoista, ingenuo/scaltro, aggressivo/timoroso, intelligente/stupido, compassionevole/crudele, timido/risoluto, e potremmo continuare a lungo. È ancora più significativo che queste contraddizioni possano coesistere nella stessa persona, anzi, in una certa misura lo fanno quasi invariabilmente...

Evidentemente ciò che siamo e ciò che oggi ci farebbe piacere pensare di essere sono due cose ben diverse." (Il cammino dell'uomo Garzanti, Milano 2004) p. 182)

E' difficile pensare che la convergenza di studiosi di diverse discipline sia casuale.

Lo statuto tendenzialmente mistificato della coscienza umana si può ritenere, dunque, un dato di fatto.

Se ci chiediamo perché esso non riesce a fare presa sulla cultura e sul senso comune, la risposta è ovvia: scalzerebbe la fiducia che gli esseri umani ripongono nella coscienza e obbligherebbe la società a riprogrammarsi per produrre uomini capaci di tenerne conto, uomini, dunque, inclini alla riflessione, al dubbio, alla sospensione del giudizio, alla ricerca della verità su se stessi e sugli altri, impegnati per tutta la vita a raggiungere un maggior grado di autenticità.

Una programmazione del genere richiederebbe di valorizzare al massimo grado la componente introversa presente in ogni personalità.

Nell'attesa che una programmazione del genere si avvii, occorre prendere atto che essa è naturalmente presente e attiva nei soggetti introversi, le cui capacità intuitive funzionano come "occhi" perennemente aperti sulla realtà umana.

La vulnerabilità psicologica, dunque, esiste nella misura in cui quella realtà ha degli aspetti sconcertanti e traumatici, che sono rimossi dal senso comune. Non solo ciascuno di noi tiene a considerare se stesso migliore di come è. E' la nostra società nel suo complesso che ritiene di avere raggiunto un livello elevato di civiltà e di autoconsapevolezza, e confonde lo sviluppo tecnologico con quello umano. A livello umano, in realtà, quello che sta avvenendo nel nostro mondo, massimamente evidente, come si è detto, a livello giovanile, è la diffusione epidemica di un modello normativo che comporta la necessità di una progressiva, più o meno marcata, anestetizzazione dell’empatia, la cui conseguenza è che le relazioni sociali, a tutti i livelli, stanno diventando formali, strumentali e vengono vissute, inconsciamente, sulla base del criterio dei costi e dei benefici che da esse si ricavano.

Dovrei fornire degli esempi, e non sarebbe una cosa difficile. Penso però che la cosa migliore da fare sia quella di rimandare al forum degli introversi, laddove si contano ormai un'infinità di testimonianze che denunciano, con un orientamento non immune da un atteggiamento autocritico, lo stato di cose esistente nel nostro mondo, al di là delle apparenze.

Il Forum della LIDI è un cahier de doléances su questo stato di cose, che gli introversi vedono e leggono intuitivamente senza riuscire a farsene sempre una ragione. Un formula ricorrente nelle testimonianze è com’è possibile: com’è possibile che i “normali” dicano e facciano certe cose senza rendersi conto di ciò che dicono e fanno e delle conseguenze dei loro comportamenti a carico degli altri?

L’ingenuità è fatale perché, attribuendo agli altri una consapevolezza cosciente di ciò che dicono, di ciò che fanno e delle conseguenze a carico degli altri dei loro comportamenti, l’interazione con il mondo sociale promuove una rabbia smisurata che letteralmente intossica l’anima degli introversi, anche se rimane quasi sempre inespressa.

Oltre che denunciare la propria condizione e analizzare i comportamenti degli altri e il modello culturale che li sottende, gli introversi scrivono poesie, racconti e riflessioni, commentano criticamente i fatti quotidiani, si impegnano a dibattere di religione, politica, filosofia, fisica, psicologia, psichiatria, genetica, evoluzionismo, citano e analizzano gli infiniti libri che leggono, i film che li colpiscono, la musica che ascoltano, cercano di comprendere il significato del pregiudizio che li riguarda, esprimono, talora con esaltazione, talaltra con pessimismo, il sogno di un mondo diverso affrancato dalla mediocrità.

Fanno, insomma, il loro mestiere di “talpe riflessive”. Il mondo dovrebbe essere loro grato perché qualcuno questo mestiere, che eccezionalmente ha esiti straordinari, deve farlo. Non c’è, invece, né gratitudine né rispetto: c’è, come si è visto, per un verso, una sollecitazione benevola a cambiare, a diventare come gli altri, e, per un altro, una “persecuzione” più o meno esplicita che si realizza attraverso il giudizio negativo sulla diversità, la ridicolizzazione, l’indifferenza, l’emarginazione.

Nascere introversi implica un prezzo da pagare. Si tratta, infatti, di convivere con un'emozionalità che fluttua tra una divorante empatia e il distacco dal mondo, con una mente inquieta, che prolunga vita natural durante il gioco dei perché, con un'intuizione che fa riferimento al mondo così come dovrebbe essere e si confronta con il mondo così com'è (al di sotto delle apparenze). Quest'ultimo aspetto, forse, è il più importante in assoluto, perché via via che il mondo reale, anziché avvicinarsi a quello ideale, se ne distanzia e tende a perseguitare i "sognatori", questi si arrabbiano sempre più, sviluppano nel loro intimo intolleranza nei confronti dei "normali", si aggrovigliano in sterili fantasie di diventare peggio di loro per dargli una lezione, cadono preda di sensi di colpa, ecc.

Sono, insomma, nonostante le loro potenzialità, esseri umani, dunque tutt'altro che perfetti.

Il problema è che il prezzo che gli introversi pagano nel nostro mondo va ben al di là di quello imposto dalla Natura: è un prezzo socialmente esorbitante in conseguenza del pregiudizio che li investe nelle forme più varie; un prezzo a tal punto elevato che parecchi di essi finiscono, dall'adolescenza in poi, con lo stare male. Vulnerabilità psicologica, certo: ma perché sopravvalutare la delicatezza della pelle psicologica, vale a dire l'assenza di una corazza, e non tenere conto della durezza dei colpi, anche se il più spesso essi sono portati inconsapevolmente o comunque senza una piena consapevolezza delle loro conseguenze?

La LIDI non ha come obiettivo il riconoscimento, che sarebbe patetico, della presunta vulnerabilità degli introversi, bensì quello, ben più importante, del patrimonio di potenzialità di cui essi sono depositari e della funzione culturale di tale patrimonio: mettere in discussione l’ordine di cose esistente nella misura in cui esso è irrazionale o disumano, come premessa per andare al di là di esso. Dato che la realizzazione di questo “sogno” non può avvenire se non coinvolgendo la collettività, l’intento ultimo della LIDI, che è lecito definire utopistico, date le forze di cui dispone, è, in ultima analisi, di tutelare l'umanità dal rischio che essa smarrisca se stessa.

Per un'analisi più dettagliata dei tratti psicologici dell'introversione, delle due sottotipologie che la caratterizzano (quella dei bambini troppo facili da educare e quella dei bambini difficili in quanto oppositivi), delle carriere di vita legate a queste sotto-tipologie e degli esiti cui esse pervengono nel nostro mondo, che non di rado sono psicopatologiche, rimando al saggio Timido, docile, ardente, specificando che la LIDI ne invierà una copia in omaggio a tutte le scuole che la richiederanno.

Aggiungo anche che alcune tematiche affrontate - e in particolare quella dello statuto normalmente mistificato della coscienza umana mistificata - nel saggio sono appena accennate. Ho dedicato ad essa un altro libro (Abbecedario di scienze umane e sociali), scritto con l'intento di promuovere l'introduzione nelle scuole medie inferiori e superiori l'insegnamento di una nuova disciplina, la panantropologia, che tenta di integrare i contributi che diverse discipline (genetica, evoluzionismo, neurobiologia, psicologia, psicoanalisi, antropologia culturale, sociologia, storia, ecc.) hanno prodotto riguardo all'uomo e ai fatti umani. Ritengo che tali contributi, in ciò che essi hanno di scientifico, debbano venire a fare parte del tragitto formativo di ogni ragazzo

Penso, come ho accennato, che non si dia una soluzione radicale del problema dell'introversione se non nell'ottica di una nuova programmazione sociale, vale a dire di una rivoluzione culturale che porti gli esseri umani ad un livello di maggiore consapevolezza sulla loro condizione, sulla loro natura, sulla diversità genetica, sulla complessa interazione tra natura umana e cultura, sul valore adattivo di ogni cultura e sulla necessità che essa sia sottoposta ad una perpetua tensione critica per non cristallizzarsi in codici normativi alienanti.

Marx ha scritto, un secolo e mezzo fa, che l'umanità non era ancora fuoriuscita dalla sua preistoria. Oggi si può concepire la fuoriuscita in termini diversi da quelli da lui proposti. Non si può negare che essa sia ancora urgente.